Ci sarà capitato almeno una volta nella nostra vita di inseguire un ricordo partendo da un profumo che ci porta indietro nel tempo, verso qualcosa di buono, di familiare. “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust, oltre ad aprire un’importante strada per le neuroscienze nello studio delle memorie, mette bene in luce il rapporto tra psicologia e cibo. Quel dolcetto burroso dalla forma di conchiglia che prende il nome di madeleine, smuove sensazioni, ricordi, emozioni. Le briciole di madeleine risvegliano quel bagaglio di consistenze, sapori, profumi e colori immagazzinati dal cervello sin dai primi giorni di vita, addirittura già nel grembo materno. La maggioranza delle nostre preferenze alimentari sono determinate da fattori psicologici e socio-ambientali. Un piatto non particolarmente prelibato consumato in un clima di tensione può determinare un’avversione duratura; lo stesso piatto, gustato in allegria, risulterà gradevole oltre misura.
Cucinare è amore e creatività
Cucinare è un atto d’amore, un po’ come l’allattamento, il primo atto d’amore in assoluto, la prima vera condivisione affettiva appena nati. Nelle favole le fate preparano pozioni per fare del bene. Così noi preparando un piatto per qualcun altro ci prendiamo cura di quella persona. Possiamo inviare in questo modo un’infinità di messaggi.
Cucinando per noi stessi ci alimentiamo correttamente e dimostriamo quanto ci vogliamo bene. Trasformare le materie prime rende il cucinare un atto magico che trasmette significati, esprime abilità personali e creatività. Cucinare, così come qualsiasi altra attività creativa (dipingere, suonare, ricamare) fa star bene. Lo ha stabilito una ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Otago (Nuova Zelanda) che ha coinvolto 658 universitari. I partecipanti hanno compilato per 13 giorni un diario, registrando esperienze ed emozioni. I ricercatori hanno riscontrato che gli studenti si sentivano più entusiasti del solito nei giorni successivi a esperienze creative.
Cucinare è arricchimento
Come un pittore davanti al suo quadro finito contempla la sua opera, chi cucina può percepire progressi fatti di fronte al piatto che ha preparato. Questo riscontro aumenta la cognizione di “essere capace”, un processo chiamato in psicologia empowerment, ovvero arricchimento delle risorse personali. Il piatto finito testimonia che si è creato qualcosa; ha una sua forma, colori, consistenza, un odore e un sapore. E come nella preparazione anche nella degustazione tutti i sensi partecipano a questo momento magico. L’umore ne trae i suoi benefici e di conseguenza migliora il benessere.
La cucina occupa un posto importante nei media e nelle varie dimensioni, a cominciare da quella cinematografica (si pensi alla celebre scena del film “Un americano a Roma” in cui Sordi azzanna un’abbondante forchettata di spaghetti). E anche nella psicologia la cucina occupa a tutti gli effetti un posto di riguardo.
Inoltre è ormai sempre più diffusa l’abitudine di condividere on line ogni frammento delle nostre vite. L’alimentazione non fa eccezione. È una delle parole chiave più diffuse nel web. I social network ci restituiscono immagini di manicaretti di ogni tipo. La parola chiave “food” si arricchisce di sotto-categorie (“food-porn”, “foodblogger” “instafood” e così via) ed è tra i primissimi risultati per numero di post. Pubblicare una foto a casa, al ristorante o in albergo non significa solo mostrare l’abilità del cuoco nella preparazione di ottimi piatti ma significa anche mostrare a un potenziale pubblico il proprio stile di vita. I meccanismi psicologici possono portare l’utente verso l’emulazione di modelli di tendenza, a volte presentati anche come sani, in questa sorta di corsa alla ricetta più sensazionale.
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